Arquà Petrarca 

Un gioiello dei Colli Euganei, ultima dimora di Francesco Petrarca

 

Quel venerdì di Pasqua in cui passammo per Arquà, il paese ribolliva di voci. Tutti, com’era prevedibile, a inseguire le bellezze del borgo: i colli che lo abbracciano, le pietre lucide della piazza, i viottoli acciottolati e, ovviamente, la casa del Petrarca. Per fortuna, quel giorno scegliemmo un altro itinerario. La mattina successiva, Arquà era quasi deserta. Complice una pioggia partita nella notte e tirata fino a tarda mattinata aveva tenuto lontani i visitatori. Le strade, lavate d’acqua, restituivano passi solitari. 

Il toponimo ‘Arquà’ non finge, racconta di un arco. È la curvatura della valle, l’abbraccio dei colli Euganei, la misura con cui l’uomo ha disposto case e terrazzamenti. Prima ancora che il Medioevo lo scrivesse nei registri, la tarda età del Bronzo aveva inciso qui la propria presenza. Lo testimoniano i numerosi resti ritrovati nei dintorni. Quando nel 1868 ‘Petrarca’ si aggiunge al nome, l’atto è più che celebrativo. Riconosce l’equilibrio che il poeta cercò in questi luoghi. Una campagna vicina ai centri di potere, abbastanza ritirata da consentire studio e silenzio e, soprattutto, un luogo ideale dove passare gli ultimi anni della sua vita.

                                            Una via del centro storico 

Il paese visto dal parcheggio sottostante                                    

Un documento del 985 attesta che Arquà possedeva un castello, abitato da Rodolfo Normanno, sul colle più alto del paese, oggi detto Monte Castello. Del fortilizio non resta traccia, ma da quel poggio, in età medievale, prese forma il borgo che più tardi avrebbe accolto la casa di Petrarca.

Oggi, negli esterni, la casa di Petrarca appare diversa. I secoli hanno ridisegnato il tessuto urbano. La strada si è spostata, i dintorni hanno cambiato passo, e il muro di cinta—al quale il poeta teneva per difendersi dalle distrazioni—non esiste più. Petrarca scelse una dimora sobria, raccolta, la fece restaurare e ne seguì di persona ogni particolare, con l’attenzione di chi cerca nel silenzio la forma più limpida del pensiero. Come detto prima, graziecalla pioggia la casa di Petrarca quel pomeriggio appariva quasi deserta. Due, forse tre visitatori oltre a noi, e silenzio. Potevo muovermi con calma, aprire lo sguardo. Campi larghi per restituire proporzioni e luce, corridoi senza figure da aspettare che si spostino. Nella sala della sedia — la sua sedia, personale — l’addetta alla sicurezza, gentilissima (di cui purtroppo il nome mi sfugge), visto le poche persone presenti, scostò la grande vetrata. Nessun riflesso, nessun vetro tra me e il legno. Mi avvicinai per fotografare e, insieme, trattenni il fiato. Un brivido, netto, al pensiero di trovarmi a pochi centimetri dall’intimità del grande poeta.

                                      La sedia di Francesco Petrarca 

La facciata principale della casa del poeta                                 

In una delle stanze, dietro il vetro della teca, riposa una gatta imbalsamata. Sotto, un’epigrafe le presta voce. La storia, sospesa tra cronaca e tradizione, vale il racconto.

Un giorno una gatta entrò nella casa di Francesco Petrarca. Il poeta la osservò e il felino si stese ai suoi piedi, e lui — divertito, forse commosso — la adottò. Da allora la gatta lo seguiva nel giardino, dormiva accanto alla sua scrivania mentre stilava I suoi versi e, soprattutto, cacciava i topi che rosicchiavano i fogli di carta. Per un bibliofilo come lui, quella compagna divenne più che affetto.Fu custode del suo lavoro.

La tradizione vuole che Petrarca, pensando al giorno in cui la gatta non ci sarebbe più, scrivesse all’amico Boccaccio per chiedergli un epitaffio da apporre a una futura teca. Non fece in tempo a realizzare il proposito perché purtroppo morì prima.

Nel Cinquecento, però, uno dei proprietari della casa decise di onorare quel desiderio. Fece imbalsamare una gatta e pose sotto la teca un’epigrafe composta dal padovano Antonio Querenghi. L'epigrafe in latino così recita ed è la gatta a parlare:

"Il poeta toscano arse di un duplice amore: io ero la sua fiamma maggiore, Laura la seconda. Perché ridi? Se lei la grazia della divina bellezza, me di tanto amante rese degna la fedeltà; se lei alle sacre carte diede i ritmi e l'ispirazione, io le difesi dai topi scellerati. Quand'ero in vita tenevo lontani i topi dalla sacra soglia, perché non distruggessero gli scritti del mio padrone. E ora pur da morta li faccio tremare ancora di paura: nel mio petto esanime è sempre viva la fedeltà di un tempo."

Così, sebbene il corpo non sia quello della vera gatta e le parole non siano del Boccaccio, in un certo senso il volere del poeta è stato esaudito lo stesso.

                                                        La teca con la gatta

Una delle stanze della casa                                                 

Camminando per Arquà Petrarca, il Medioevo non è una cartolina. È l’aria che respiri. Nel centro storico le viuzze acciottolate serpeggiano tra case e palazzi ben conservati; ogni pietra rimanda a un’altra epoca. E percorrere il borgo quasi in solitudine, lontano dalle folle, è un privilegio raro.

Il cammino ci conduce così alla piazza dominata dalla chiesa di Santa Maria Assunta. Le origini dell’edificio risalgono al 1026; i secoli, con i loro rimaneggiamenti, ne hanno stratificato l’aspetto. Qui, per un periodo, riposò Francesco Petrarca, morto nel 1374. Nel 1380 il genero, Francescuolo da Brossano, traslò le spoglie in un’arca sul sagrato. Nei secoli quell’arca fu aperta più volte, a volte per studio, a volte per sottrarre reliquie del poeta. Nel 1944, per timore dei bombardamenti, i resti furono trasferiti a Venezia. Al termine della guerra furono ricomposti a Padova e, nel 1946, riportati ad Arquà.

La storia riserva però un colpo di scena. Nel 2003, nuove analisi condotte dal anatomo-patologo Vito Terribile Wiel Marin dell’Università di Padova indicarono che il cranio conservato nell’arca apparteneva ad una donna. Quando e come avvenne la sostituzione resta discusso. C’è chi ipotizza l’epoca bellica, chi un furto più antico. L’enigma, comunque, aggiunge un filo di mistero alla quiete del borgo.

 

                                  L'arca contenente le spoglie del poeta

L'interno della chiesa di Santa Maria Assunta                                  

FOTOGRAFIE 


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