Bunker "Raggi-Brunner" di Planina
Roccia, ferro, cemento e storia. Discesa in uno dei più grandi bunker del Vallo Alpino del Littorio
Il caposaldo "Raggi-Brunner" facente parte dell'allora XXVI settore Carnaro del Vallo Alpino del Littorio (oggi conosciuto anche come bunker di Unška Koliševka, che è il nome della grande dolina dove è stato costruito il bunker) si trova a sud di Planina, poco distante dalla strada che porta verso il paese di Unec. Con i suoi quasi 1000 metri di sviluppo sotterraneo, è uno dei bunker più grandi dell'intero Vallo.
Queste fortificazioni furono costruite, dopo il trattato di Rapallo, per difendere i confini da possibili invasioni. Nate con la circolare 200 e via via rifinite dalle direttive seguenti. (La circolare 200, emanata il 6 gennaio 1931, stabiliva che il sistema difensivo fortificato fosse suddiviso in tre zone: Una "posizione di resistenza" formata da due fasce contigue parallele al confine, una "zona di schieramento" a tergo della posizione di resistenza, una "zona di sicurezza" antistante alla posizione di resistenza). I dispositivi logistici acquistarono coesione: cunicoli scavati sotto la linea univano i centri, convogliando uomini in avanti e aprendo vie sicure di ripiegamento, invisibili agli occhi e alle armi del nemico.
In origine erano sette, numerati come sentinelle: 166, 167, 168 e 169 per il caposaldo Unec‑Molini “Raggi”; 170, 171 e 172 per Unec‑Quadrivio “Brunner”. Seguivano la circolare 800, il codice costruttivo dell’epoca (a completamento della Circolare 200, relativa alla fortificazione permanente in montagna, il 5 marzo 1931 venne emanata la Circolare 800, relativa alla fortificazione permanente nelle zone boscose. La struttura degli sbarramenti è analoga a quella prevista dalla Circolare 200, adattata al diverso tipo di terreno). Calcestruzzo e acciaio pensati per reggere ai colpi pesanti. Poi arrivò l’idea che cambiò la geografia della difesa: un lungo cunicolo sotterraneo cucì i due capisaldi in un’unica opera. Finita la seconda guerra mondiale, però, prevalse la necessità: le postazioni esterne furono smontate, piastre e torrette in ferro recuperate, e delle fortificazioni esterne oggi restano la memoria e pochi manufatti in cemento inghiottiti dalla vegetazione.
Sotto terra l’opera regge ancora, ma porta addosso i segni del tempo: pareti umide, intonaci scrostati, ferri in vista. Si può visitare ma con cautela. Evitando i tratti allagati e le zone che cedono sotto i passi. Le scale metalliche corrose dalla ruggine sono ovviamente off-limits.
La cosa più intrigante, in tutto il complesso, sono le scritte sulle pareti. Hanno retto agli anni: frecce scolorite, lettere sbavate di vernice che indicano ancora le direzioni come custodi discreti. E funzionano tuttora, perché il bunker è vasto; tra roccia e cemento si apre un dedalo in cui, per perdersi bisogna proprio impegnarsi. Resta l’ovvio: si entra solo con una buona luce e una scorta di batterie.
Bunker come questo dicono molto di un’epoca in cui si dormiva con un occhio al confine e l’altro alla paura del vicino. In quel Regno d’Italia, oggi lontano e riscritto dalla storia, uomini hanno vegliato qui: hanno mangiato, riso, bestemmiato, atteso e sofferto. In queste camere di ferro e cemento si impara anche altro: tutto scorre, tutto finisce e poi riprende forma. Il manufatto resta. E per molto tempo questa cicatrice nella roccia ci ricorderà ciò che passa e ciò che rimane.
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