Storia di un forte che non sparò mai un colpo, ma che ancora oggi nasconde i suoi segreti
Nel cuore pulsante delle Alpi, là dove la Val d’Isarco e la Val Pusteria si intrecciano, sorge il Forte di Fortezza. Arroccato a 750 metri, non è una semplice fortezza, ma un colosso di pietra nato in soli cinque anni di lavori e consegnato alla storia nel 1838. Ogni suo dettaglio, dalla forma a sperone delle mura ai sotterranei ventilati, fu forgiato da un'ingegneria visionaria. Non si trattava solo di erigere mura, ma di dare forma a un'idea ossessiva: l'inespugnabilità. Questo baluardo era l'argine fisico e simbolico su cui si infrangeva l'ansia dell'Impero Austriaco, la sentinella di un confine da proteggere a tutti i costi. La sua mole non intimorisce solo per la pietra, ma per il calcolo perfetto che la anima, un'intelligenza strategica divenuta realtà. La strategia, tuttavia, si scontrò con l'ironia della storia. Il forte non vide mai un battesimo di fuoco, non esplose un solo colpo in battaglia. La sua esistenza fu un palcoscenico di occupazioni silenziose. Sventolarono sulle sue torri le bandiere di diversi eserciti, regni, stati e imperi, ciascuno a certificare un possesso più teorico che conquistato.
Incisione di metà 800 raffigurante l'inaugurazione del forte nel 1838
Il cancello principale del forte basso
Il forte è strutturato in tre sezioni principali: forte basso (Talwerk), forte medio (Mittelwerk o Blockhaus) e forte alto (Höhenwerk). Tralascerò le specifiche tecniche, facilmente accessibili online, per concentrarmi più sulle percezioni che si hanno visitando questo luogo e sulle storie non risolte—come la vicenda dell’oro della fortezza, ma procediamo con ordine.
La chiesetta neogotica, progettata nel 1845 dal capitano ingegnere Gedeon von Radó e dedicata a Santa Barbara (patrona di artiglieri e minatori), costituisce – per quanto noto – un esempio unico di spazio sacro all’interno di un fortilizio austriaco. La sua presenza segnala il dialogo tra esigenze spirituali e funzione militare. Le riconversioni successive – magazzino durante la Grande Guerra, quindi nodo del Vallo Alpino (sbarramento “Imene” di Fortezza) con nuovi bunker – testimoniano l’elasticità d’uso delle architetture difensive. Nel secondo conflitto subisce soltanto un’esplosione al forte medio, a ridosso della chiesetta, non compromettendo il complesso. Con la Guerra fredda il forte diventa polveriera fino alla sua dismissione nel 1991; dal 2005 il forte diventa visitabile.
La chiesetta di Santa Barbara
Un tratto del forte medio
Il forte trattiene il tempo. Le camerate, i corridoi, conservano l’ordine del passato. Migliaia di uomini hanno vissuto qui, e più di ogni altra cosa, sono le pareti a conservare queste prove. Nomi incisi nel mattone, o graffiati nelle vernici cadute, italiani e austriaci insieme. La traccia più lontana che sono riuscito a trovare risale al 1882. I segni dei soldati su muri e pietre, dovunque affiorino, lasciano in bocca l'amaro. Di tante vite restano solo poche righe incise, il resto l'ha mangiato l'oblio.
Una delle tante testimonianze lasciate dai soldati
Nell’Italia in guerra, l’oro viaggiava in silenzio. Nel 1943, per ordine di Benito Mussolini, 127,5 tonnellate, la riserva aurea della Banca d’Italia, furono spostate da Roma a Milano. L’anno seguente, il colonnello Herbert Kappler — lo stesso che ordinò il massacro delle Fosse Ardeatine — fece caricare dodici vagoni diretti a Fortezza, la Franzensfeste in mano alla Wehrmacht. Lì, prigionieri russi, costruirono in fretta una camera blindata e scaricarono i lingotti.
Poi, i binari inghiottirono la verità. Da Fortezza, tre convogli partirono verso nord con 102,5 tonnellate destinate, ufficialmente, a Berlino e alle banche svizzere. I documenti di quel viaggio non sono mai stati rinvenuti; per alcuni furono manipolati, per altri non raccontano l’intero percorso.
Una delle tante gallerie sotterranee
Foto raffigurante prigionieri russi mentre scaricano le casse dell'oro
Quando, nel 1945, gli Alleati presero il forte, aprirono porte e casse: dentro, circa 25 tonnellate. Il resto delle 127,5 iniziali. Cominciò allora la lunga stagione delle domande. C’era chi giurava che l’oro non avesse mai lasciato il forte e che fosse stato occultato in cavità e intercapedini. La Banca d’Italia condusse verifiche ma emersero solo ipotesi, non lingotti. Negli anni Settanta, il nome di Licio Gelli — il “venerabile” della P2, nelle cui disponibilità fu rinvenuto oro jugoslavo di provenienza bellica — entrò nella leggenda dell'oro di Fortezza con tre visite a Fortezza, visite che difficilmente furono turistiche. Nel 1977, l’ingegner Luigi Cavalloni affermò con certezza che l’oro fosse ancora lì. Nello stesso anno, Kappler riuscì a fuggire dall’ospedale militare del Celio. Un’inchiesta del 1983 ipotizzò uno scambio: l’evasione barattata con segreti su Fortezza. Ma come spesso succede in Italia nulla venne provato.
L’ultimo segno tangibile arrivò nel 2005. In un vano del forte si trovò uno stampo per lingotti privo di punzonature. Le analisi rilevarono tracce di piombo e carbone. Qualcuno, in qualche momento, aveva fuso qualcosa, forse per cancellarne la provenienza. Da allora, il silenzio. Il forte tace con il suoi segreti. Di quell'oro rimangono solo molte domande.
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